Siamo ricchi che si credono mendicanti

Anche questa settimana, in collaborazione con il Centro Diocesano Vocazioni, presentiamo una breve riflessione su vita e fede.

Guardando a me stesso, prima ancora che ad altri, mi accorgo di come la vita, il quotidiano, le faccende di ogni giorno tendano a farci dimenticare chi siamo. Ogni giorno, c’è un’identità da riscoprire, ci sono delle certezze da ri-confermare. Per quanto uno possa aver vissuto, riflettuto, essersi impegnato, ogni nuova giornata che Dio ci dona su questa Terra ci trova un po’ alle prese con una tabula rasa, in una situazione in cui ci troviamo smarriti, disorientati, indifesi.

O, meglio, questa è la sensazione. Perché in realtà, abbiamo già tutto ciò che ci serve, l’essere figli di Dio e l’avere Gesù come esempio (nei Vangeli) e come nutrimento (nell’Eucarestia). Ma questi capisaldi, per quanto importanti, rischiano di essere quotidianamente spazzati via, come conchiglie da un’onda  sulla sabbia, da distrazioni, preoccupazioni, attrattive varie, agende troppo fitte.

Un’altra immagine che potrebbe rendere l’idea è quella di un tesoro nel deserto che venga continuamente ricoperto dalle tempeste di sabbia: per farlo riaffiorare, c’è sempre bisogno di spazzare, liberare, soffiar via tutto ciò che vi si deposita e tende ad offuscarne lo splendore.

Lo stesso accade con la fede e la nostra vocazione alla salvezza. Esse ci sono, magari abbiamo anche fatto del nostro meglio per coltivarle, ma sembra sempre che queste cose preziose (preziose un po’ perché ci sono state date in dono, un po’ anche perché pure noi cerchiamo di valorizzarle) tendano a venire nascoste, attenuate, depotenziate da qualcosa che vi si deposita sopra.

Ora, il punto è, a mio avviso, che noi dobbiamo dare per scontata questa opera di contrasto, queste “tempeste di sabbia”, questo processo di affastellamento di detriti sopra tutto ciò che di maggior valore abbiamo. Ma, a maggior ragione, non dobbiamo stancarci di spazzar via, con metodo e pazienza, ogni “agente di offuscamento”. Tale opera paziente si chiama “preghiera”.

Senza di essa, noi rischiamo di sentirci perennemente dei ricchi che si credono poveri. Dei salvati che si credono alla deriva. Dei figli che si credono orfani. Dei redenti che si credono condannati alla mediocrità. Tale opera, però, non va soltanto auspicata, lodata, raccomandata, coperta di assensi. Deve essere effettivamente PRATICATA, dedicandole del tempo che non può venire sostituito dall’entusiasmo, dal trasporto, da un buon proposito. Significa, effettivamente, mettersi in silenzio davanti al Signore, tralasciando occupazioni, preoccupazioni, lusinghe, scadenze per dedicarci all’unica Causa che ci può illuminare e salvare: la costruzione del nostro rapporto con Dio.

Alcuni minuti al giorno sono un prezzo troppo salato per riscoprire che siamo ricchi, e che non dobbiamo elemosinare briciole di felicità da altre parti? Sono una richiesta troppo esigente per renderci conto che i figli di Dio non devono andare a fare i questuanti in case altrui (in termini di risposte, soddisfazioni, certezze, gratificazioni)? Quanto ci metteremo, noi cristiani, per uscire da questa adolescenza perenne che ci fa sentire sempre scalpitanti e insofferenti nella casa del Padre, nella convinzione illusoria che l’erba del vicino, per definizione, sia sempre più verde?

La questione, a giudicare dai casi di disagio interiore che si constatano nella nostra società, sta diventando sempre più scottante. Ma chissà che anche il disagio ed il malessere non possano giocare a favore di una svolta, di una sana ribellione, di un risveglio interiore.

Chissà che tutti noi non riusciamo infine a riconoscerci un po’ nelle sembianze del figliol prodigo, che, mentre pascola i porci altrui senza nemmeno poterne mangiare le carrube, si ricorda che a casa ha sempre un Padre che lo ama. E che, invece di presentargli il conto della sua lontananza, aspetta solo di riabbracciarlo e di renderlo di nuovo felice con la Sua presenza.

 

Don Davide

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